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Il design e la diversità

Tradizionalmente, il design rappresenta il processo e il risultato del lavoro di un progettista che disegna e immagina oggetti di uso comune in una soluzione che sia efficace sia dal punto di vista  funzionale che estetico. Nella sua evoluzione storica, il design è diventato una prospettiva con cui guardare e rispondere  alle diverse necessità dell’uomo. A testimonianza di tale direzione rileviamo, nella letteratura di settore,  una crescente presenza di concetti come lo Human Centred Design, User Experience, Interaction Design, che evidenziano una sempre maggiore attenzione al rapporto tra oggetto e utilizzatore.

Riflettendo sul rapporto tra design e diversity, vediamo come emerga una recente tendenza ad integrare la dimensione estetica con una più funzionale,  necessaria affinché il prodotto realizzato risponda alle esigenze specifiche delle persone con disabilità. In tal senso, i prodotti realizzati a sussidio della disabilità (dalle protesi alle carrozzine, dagli abiti agli utensili) sono sempre stati pensati in maniera puramente funzionale, senza dare peso all’estetica dell’oggetto stesso, come se i prodotti per le persone disabili non necessitassero di bellezza. Fortunatamente, sono ora sempre più numerosi gli esempi di soluzioni innovative sia dal punto di vista estetico che funzionale per questo target specifico di clienti. Questo rappresenta un enorme passo in avanti del mondo del design e della moda, sempre più aperto e inclusivo nei confronti della diversità.

Bello è buono?

Come ben esplicitato da Malafarina, la cultura occidentale si è costruita sul rapporto tra estetica e morale dove tutto si riduce all’associazione “bello è buono” e “brutto è cattivo”. Si tratta dunque di categorie interpretative, culturalmente situate, che portano a significare ciò che è diverso dalla norma di riferimento come “brutto”, dove brutto sembra servire a dar voce a vissuti di angoscia sollecitati da ciò che è diverso, che perturba e perciò “cattivo” e “nocivo”.  Anche l’assistenzialismo, che caratterizza in modo prevalente l’approccio alla disabilità, sembra rispondere a questa necessità di sedare i vissuti di ansia, frustrazione e paura che la diversità suscita. Etichettare l’altro come disabile e quindi fragile previene la difficoltà che scaturisce dal confronto con la diversità che inevitabilmente impone a pensare a quella relazione poiché distante dalle categorie note con cui interpretiamo la realtà e gli altri. Nel caso del design riportare la bellezza alla sfera della disabilità permette un primo atto inclusivo che tratta l’estetica quale strumento di sviluppo e componente imprescindibile per il benessere di ogni singolo individuo: infatti, la bellezza è l’espressione della tendenza ad amare e a prendersi cura dell’altro, dell’armonia della forma, della simmetria come dell’alterità. Senza di essa non avremmo la tendenza a ricercare il bello e a stare bene come spinta all’esplorazione e alla generatività.

Ribaltare la prospettiva

Tuttavia, nonostante i passi in avanti sopracitati, è interessante notare che se esploriamo il rapporto tra diversity e design ciò che prevale è la visione del portatore di disabilità come cliente finale del prodotto di design (coerentemente con la logica dell’Human centred design) e raramente come professionista (diversity management) ; come se rappresentasse sempre il target ma non il designer competente, creativo e produttivo.

Come DNA vorremmo ribaltare la prospettiva che subordina la disabilità alla capacità produttiva avvicinando il mondo del design alla cultura della Diversity Management per promuovere uno sguardo alla diversità che cerca e lavora con le differenze, valorizzando la soggettività come spinta creativa e l’organizzazione come contesto di sviluppo di idee e prodotti.

Come riporta il dossier L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità in Italia (a cura della Fondazione Studi e Consulenti del Lavoro, Consiglio Nazionale dell’Ordine, dicembre 2019), “contrariamente alla rappresentazione spesso fornita dai media e altrettanto diffusa presso l’opinione pubblica, la collocazione delle persone con disabilità all’interno del mercato del lavoro è molto diversificata, sebbene risenta […] delle difficoltà che gli stessi incontrano nell’accesso ai percorsi formativi di più elevata qualificazione”; entrando nel merito dei dati statistici, il 19.8% dei lavoratori disabili si colloca ai vertici della piramide professionale, svolgendo nel 5.3% una professione intellettuale e/o dirigenziale e nel 14.5% una professione tecnica di elevata specializzazione. Tuttavia, ad oggi, si riscontra una disomogeneità tra pubblico e privato con  un maggior numero di profili ad alta qualificazione nel pubblico (10.8% di dirigenti e professionisti; 17.4% di figure tecniche) rispetto al privato (3.6% di dirigenti e professionisti; 13.5% di figure tecniche).

Questo sbilanciamento sembra suggerire che la cultura del Diversity Management, intesa qui come prospettiva che tratta la diversità come leva di sviluppo,  nel contesto privato è ancora ad uno stadio iniziale.

D’altra parte, la ridotta percentuale di persone con disabilità nel privato potrebbe essere collegata alla difficoltà di rilevare tale presenza in quanto la disabilità potrebbe non essere il principale criterio che organizza il rapporto tra questi e le aziende, a differenza del pubblico in cui i dispositivi di ingresso (bandi, concorsi…) sono dedicati alla disabilità  stessa.

Pensiamo quindi che quando il criterio disabile lascia spazio ai criteri di efficacia e produttività, si pongono le basi per l’implementazione di programmi di Diversity Management pensati come linee di sviluppo strategico dell’organizzazione piuttosto che come progetti di supporto a determinate categorie.

 

A cura di Federica Maiucci e Valentina Nannini

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