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La disabilità non è un problema, ma una grande risorsa: un’analisi che partendo dal rapporto Istat “Conoscere il mondo della disabilità”, passando per alcuni virtuosi esempi italiani, rende evidente come sia necessario un cambio di prospettiva.

 

 

Il Rapporto Istat sulla Disabilità

Secondo il rapporto Istat “Conoscere il mondo della disabilità” presentato al termine del 2019, in Italia esistono circa 3,1 milioni di persone con disabilità, circa il 5,2% della popolazione complessiva. Il rapporto è uno dei primi tentativi di raccogliere, elaborare e diffondere dati sulla disabilità in Italia nonostante si parta dalla consapevolezza che, quando parliamo di questo argomento, manchi una definizione univoca e dei criteri di rilevazione uniforme, dunque non può esservi una risposta certa, né un censimento esatto.

 

Un problema di definizione

Infatti, quando parliamo dei numeri della disabilità occorre prima interrogarsi sulla definizione della stessa, che di per sé è un concetto vago e generico, che racchiude molteplici diversità e capacità fisiche, cognitive e sensoriali, e che non corrisponde ad un modello univoco, di per sé patologizzante perché identifica nell’altro il “diverso”, “sbagliato” e “malato”. Se prima la definizione identificava persone con problemi fisici o mentali sui quali intervenire secondo un modello medico, a partire dagli anni Ottanta si utilizza più correttamente la definizione che ne dà il Social Model of Disability, secondo il quale la disabilità è il risultato di un’interazione tra la limitazione individuale fisica, sensoriale o cognitiva e il contesto sociale di riferimento. In poche parole, la disabilità è una conseguenza di fattori sociali: laddove il contesto non è accessibile o inclusivo, la disabilità è portata ad aumentare.

 

L’inclusività dei luoghi fisici…

Questo ci porta a riflettere sull’effettiva inclusività dei luoghi che attraversiamo quotidianamente: non è l’individuo ad essere disabile, ma la situazione di contesto che privilegia alcuni a scapito di altri, senza tenere conto dell’eterogeneità di soggetti e delle loro caratteristiche specifiche. Un semplice esempio sono le barriere architettoniche: se una persona disabile non può salire la scalinata di ingresso di un edificio, il problema è dell’edificio e non della persona, e la soluzione è quella di installare una rampa. Fortunatamente, da molto tempo si parla ormai di progettare secondo i concetti di design for all e universal design, vale a dire offrire diverse modalità di uso di uno spazio o di un oggetto in base ai bisogni della popolazione che lo fruisce. Tale approccio non riguarda solo le persone con disabilità ma interviene sul benessere collettivo nel suo complesso: più accessibilità vuol dire più comodità, lavorare in un ambiente più agevole e accogliente in grado di influire positivamente sul miglioramento delle prestazioni e dei risultati. A beneficiarne è la comunità intera.

 

…e dei contesti sociali e lavorativi

Ma il tema dell’attraversibilità e dell’inclusività non riguarda solo i luoghi fisici: le persone con disabilità sono spesso escluse da molti ambiti della vita sociale e professionale, proprio perché se guardiamo a ciò che è “sbagliato” nella persona non vediamo ciò di cui la stessa ha bisogno, portandola a perdere la capacità di essere indipendente, di scegliere e di autodeterminarsi nel corso della propria vita. Basti pensare a come la disabilità in Italia rappresenti ancora un ostacolo ad accedere alle tappe fondamentali della vita, come il lavoro, l’istruzione, la mobilità e la libera circolazione e utilizzo dei luoghi pubblici.

 

Alcuni passi avanti sul piano normativo, pochi nel concreto

Se applichiamo questa riflessione al rapporto tra la disabilità e i contesti di lavoro, vediamo come all’interno della popolazione attiva compresa tra i 15 e i 64 anni risulta occupato solo il 31,3% di persone che soffrono di limitazioni gravi, contro il 57,8% di persone che ne sono prive. Chiaramente, con enormi disparità territoriali tra nord e sud. Benché siano stati fatti molti passi in avanti negli ultimi anni in rapporto all’inclusione lavorativa, in particolare sul piano normativo (si pensi alla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio Europeo, alla Convenzione Onu del 2006, ma anche alla legge 68 del 1999 o a quella delle Pari Opportunità legge 165/2001), i dati ci dimostrano che sono ancora moltissime le persone con disabilità escluse dal mercato del lavoro, nonostante non manchi la consapevolezza (anche istituzionale) del valore che esse rappresentano, come espresso dal presidente Mattarella in occasione della presentazione del rapporto Istat: “le persone con disabilità rappresentano un giacimento di qualità, energia e risorse di cui il Paese spesso si priva perché non li mette nelle condizioni di esprimerle”.

 

Esempi virtuosi: l’RPI

Modelli ed esempi virtuosi di inclusione lavorativa di persone con disabilità certamente non mancano, sia all’interno di contesti organizzativi pubblici che privati: si pensi ad esempio al lavoro svolto dal gruppo di lavoro creatosi attorno alla Responsabile dei Processi di Inserimento delle persone con disabilità (RPI) insediatosi all’Istat lo scorso febbraio 2020, conclusosi nella pubblicazione di un volume il cui “intento è quello di promuovere il processo di inclusione, attraverso la sensibilizzazione e la stimolazione di una reciproca conoscenza tra colleghi, dove le diverse abilità di ciascuno possano venire riconosciute, valorizzate e accettate come risorsa necessaria allo svolgimento del lavoro comune”. Grazie a questo lavoro, si cerca di suggerire a tutte le Amministrazioni Pubbliche con più di 200 dipendenti (che per legge devono avere la figura del RPI), di “mettere in campo risorse adeguate per non cedere all’instabilità e valorizzare, invece, le diverse abilità di ciascuno”.

 

Esempi virtuosi: Numero Zero e PIzzAut

In alcuni settori l’inclusione viene sperimentata con risultati sorprendenti, in particolare agli occhi di chi identifica nel disabile una risorsa idonea solo a ruoli minori e isolati, al di fuori delle relazioni con il pubblico: si pensi ad esempio all’esperienza di Numero Zero, un ristorante di Perugia dove la metà dei dipendenti soffre di disturbi mentali; in questo luogo viene offerta la possibilità concreta di reinserimento sia sociale che lavorativo per persone con disturbi psichiatrici, in un contesto che mette il “diverso” al centro di una dimensione sociale e comunitaria, quale è quella di un ristorante. O ancora, si pensi all’importanza del progetto milanese PIzzAut, una pizzeria gestita da ragazzi con autismo affiancati da professionisti della ristorazione e della riabilitazione: un vero e proprio laboratorio di inclusione sociale e al tempo stesso un modello che permette alle persone autistiche di formarsi e lavorare, riconquistando la propria dignità attraverso il valore del proprio lavoro.

 

Un altro mo(N)do è possibile

Queste esperienze ci raccontano che un altro modo è possibile, ma che esso può essere realizzato solo a partire da un cambio di paradigma: occorre lasciarsi alle spalle un’impostazione mentale che identifica la persona disabile con le etichette che appartengono al passato, riproducendo uno stereotipo con le caratteristiche tipiche di quella definizione, in grado di generare unicamente aspettative altrettanto stereotipate. L’alterità è opportunità di arricchimento, di crescita e di miglioramento, personale e collettivo. 

 

a cura di Federica Maiucci

 

Se sei un’azienda e vuoi iniziare un processo di reale inclusione lavorativa di persone portatrici di diversità, visita la pagina dei nostri servizi o contattaci scrivendo a staffdna@differenceinaddition.org o telefonaci allo 06.48906884 per una consulenza

 

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