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Quanto incide il tema dell’Occupazione femminile e della disparità di genere per superare la crisi post Covid?

 

L’occupazione femminile in Italia

Gender Pay Gap, disparità di genere, lavoro di cura, lavoro domestico, implementazione di piani di welfare, investire sul lavoro femminile: sono termini e formule che abbiamo sentito ripetere spesso nel dibattito degli ultimi mesi relativo ai piani di implementazione del Recovery Fund, e che proprio negli ultimi giorni sono tornati all’onore della cronaca grazie alle notizie circolate riguardo l’approvazione della nuova Manovra di bilancio da parte del Consiglio dei Ministri. L’importanza della presenza di questi temi, all’interno del dibattito sugli strumenti economici che dovrebbero rilanciare l’economia del nostro paese, non è affatto di secondo piano. 

L’evoluzione storica degli ultimi anni infatti ci racconta come la situazione delle donne nel mercato del lavoro italiano sia ancora estremamente critica: secondo i dati Istat, il divario tra il tasso di occupazione femminile e quello maschile è del 18,9%, e la situazione peggiora nel caso in cui le donne hanno figli a carico. Se in Italia l’11,1% delle donne con almeno un figlio non ha mai lavorato, il tasso di occupazione delle madri tra 25 e 54 anni che si occupano dei propri figli o dei parenti non autosufficienti è di appena 57%, in confronto a quello dei padri che si attesta all’89,3%. Questa situazione è andata aggravandosi ulteriormente con la crisi post Covid: secondo lo studio “Covid: un paese in bilico tra rischi e opportunità. Donne in prima linea”, nonostante le donne siano in media più istruite degli uomini (una media del 60% di laureate), il tasso di occupazione femminile in Italia raggiunge solo il 49,5%, uno dei livelli più bassi d’Europa. Una situazione di svantaggio su cui ha certamente pesato la chiusura delle scuole e il confinamento domestico, che ha messo le donne lavoratrici nella condizione di dover gestire contemporaneamente il lavoro da remoto, il supporto ai figli nello studio a distanza (oltre alle cure ordinarie degli stessi), la gestione della casa e della propria famiglia. Da questi dati è dunque possibile evincere una fotografia della realtà dove è solo una donna su due a lavorare, spesso in settori tradizionalmente meno retribuiti, con contratti preferibilmente part-time e meno duraturi. 

 

Il lavoro domestico e il lavoro di cura

A questo occorre aggiungere il portato culturale secondo cui sono le donne a doversi occupare della famiglia, e dunque a farsi carico della maggior parte del lavoro domestico e del lavoro di cura (ovvero la cura ed educazione dei figli, la gestione dei genitori o parenti anziani non autosufficienti, le faccende domestiche, la spesa, la pulizia della casa, etc). Questo comporta oneri gravosi per la popolazione femminile, sulla quale pesa il carico del lavoro di cura (difficilmente risolvibile in un contesto sociale dove manca una struttura di welfare adeguata) che le rende decisamente più svantaggiate rispetto ai colleghi uomini nelle possibilità e capacità di accesso al mondo del lavoro. Non a caso, infatti, è nei confronti delle donne che si verifica una discriminazione in ingresso da parte delle stesse imprese, che preferiranno sempre assumere uomini, anche a parità di competenze ed esperienze, in quanto più “disponibili al lavoro”, meno gravati dalla famiglia e dunque meno costosi per l’azienda stessa. 

 

La segregazione occupazionale 

Tale disparità di trattamento aumenta laddove si sposta lo sguardo dai ruoli ordinari ai vertici delle imprese. Il concetto di segregazione occupazionale delle donne, orizzontale e verticale, può aiutarci a comprendere meglio questo fenomeno: con la prima si intende la concentrazione dell’occupazione femminile in un ristretto numero di settori e professioni; con la seconda si intende invece la concentrazione femminile nei livelli più bassi della scala gerarchica nell’ambito della stessa occupazione, ovvero la scarsa presenza di donne nei ruoli manageriali e dirigenziali, generalmente riservati alla popolazione maschile. Il fenomeno della segregazione orizzontale evidenzia l’esistenza di stereotipi sociali legati al genere che ostacolano la flessibilità del mercato del lavoro, partendo dalla sottorappresentazione delle donne in determinati settori e in specifici ambiti, mansioni e professioni (si pensi, ad esempio, le occupazioni considerate “femminili” perché associate a stereotipi sociali e ai ruoli tradizionali del lavoro domestico e di cura, come maestre, segretarie, impiegate, parrucchiere, infermiere, commesse, assistenti sociali, estetiste, cassiere e così via). Mentre la segregazione verticale evidenzia l’esistenza del cosiddetto “soffitto di cristallo”, una metafora per descrivere la facile ascesa degli uomini verso posizioni apicali mentre per le donne simboleggia un ostacolo al percorso di carriera e le esclude dalle suddette posizioni. 

 

Una risorsa svalorizzata

I dati e i fenomeni di esclusione delle donne dal mercato del lavoro ci dimostrano come il nostro paese sia in una posizione ancora arretrata rispetto ai tempi che corrono e alle esigenze di inclusione, innovazione e partecipazione che questi tempi richiedono, come hanno dimostrato anche i ripetuti appelli al Parlamento della Ministra delle Pari Opportunità Elena Bonetti: stiamo attraversando un periodo di forte crisi economica, e dunque occupazionale, che richiede interventi strutturati e mirati alla creazione di nuova occupazione così come al miglioramento delle condizioni stesse dell’occupazione, per poter generare la spinta in avanti necessaria ad uscire dalla recessione. Le donne sono una risorsa che il mercato difficilmente riconosce e valorizza, se non in specifici casi, nonostante i numeri parlano chiaro: se il numero di laureate è più alto dei laureati, significa che esiste un enorme bagaglio di competenze e conoscenze inespresse da impiegare utilmente nei contesti occupazionali; se quasi la metà della popolazione femminile non è impiegata nel lavoro retribuito, significa che stiamo perdendo la possibilità di generare ricchezza dall’impiego di un’incredibile quantità di lavoratrici, costrette tra le mura domestiche per la mancanza di interventi di welfare e sostegno all’occupazione adeguati. Capovolgendo il punto di vista, potremmo anche affermare che se le donne sono abituate dalla costruzione culturale stessa del loro genere a dover gestire da sole il lavoro, la casa, i figli, più che essere considerata un deficit e motivo di discriminazione questa capacità dovrebbe essere riconosciuta nel campo delle competenze informali estremamente necessarie nei contesti organizzativi (gestione del tempo e delle responsabilità, orientamento all’obiettivo, capacità di svolgere più funzioni contemporaneamente) insieme alla capacità di gestione del lavoro alternativa a quella tradizionalmente maschile, e dunque utile ad apportare potenziali innovazioni positive nei contesti organizzativi stessi. 

 

Gli interventi normativi

Diverse sono le iniziative che nel corso degli anni sono state adottate in termini legislativi: si pensi al decreto legislativo 198/2006, meglio noto come Codice delle Pari Opportunità, nel quale viene disposto il divieto di discriminazione e parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini (poi ripreso da una serie di direttive ministeriali volte a meglio regolamentare l’obiettivo della parità di trattamento per i lavoratori e le lavoratrici appartenenti alle categorie protette); o ancora, alla legge n. 120/2011, la cosiddetta legge Golfo Mosca, che prevede quote di genere all’interno dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali nelle grandi società italiane, grazie alla quale sono stati ottenuti importanti risultati nella rappresentanza di entrambi i generi nei Consigli di Amministrazione e ha apportato miglioramenti delle performance aziendali in termini produttivi e sostenibili nel rispetto dei principi del Diversity & Inclusion. Nella stessa direzione si muove la recente iniziativa della Regione Lazio, volta ad abbattere il Gender Pay Gap attraverso la pubblicazione di nuove gare d’appalto alle quali possono accedere le aziende in grado di dimostrare la propria attenzione alle politiche di genere. 

 

Superare la disparità di genere

Potremmo citare molti altri esempi, emblematici dello sforzo e della volontà da parte delle amministrazioni di raggiungere la parità di trattamento dei generi; e proprio questo susseguirsi di interventi normativi esemplifica la difficoltà del nostro paese nel superare le disparità di genere senza l’intervento coattivo del legislatore. Infatti, oltre alle norme è necessario che si pongano le condizioni culturali utili a superare pregiudizi e discriminazioni che ancora oggi escludono le donne dal mercato del lavoro, o precludono un’equa compartecipazione di genere agli organi dirigenziali, o ancora prevedono una retribuzione minore per una donna che ha la stessa mansione di un collega uomo (Gender Pay Gap). La questione è oggi più che mai urgente, mentre l’Italia prova a fuoriuscire dalla crisi post-Covid, molte aziende sono a rischio di chiusura o fallimento e circa un terzo delle lavoratrici con figli rischia di dover lasciare il proprio lavoro se la scuola non dovesse riprendere a regime ordinario. 

 

Occorre dunque avviare, o continuare nel caso di aziende che lo hanno già intrapreso, un percorso di costruzione di una cultura inclusiva, in grado di conoscere e comprendere i problemi concreti dei propri collaboratori e collaboratrici al fine di poterli gestire al meglio e creare ambienti di lavoro accoglienti. Se l’emergenza sanitaria ha colpito maggiormente il lavoro delle donne, occorre domandarsi quale ruolo esse possano ricoprire nella ripresa, in quanto risorsa essenziale per il nostro sistema sociale ed economico. 

 

Conclusioni

In conclusione, se nel piano economico del Recovery Fund troveremo misure volte a favorire l’occupazione femminile, combattere le disparità di genere e implementare nuovi piani di welfare, il nostro ruolo come DNA è quello di preparare i contesti organizzativi ad accogliere le diversità in ottica di valorizzazione delle stesse. Un intervento inclusivo che guarda alle differenze di genere, ma anche a quelle di età, provenienza, abilità, competenze ed esperienze al fine di immaginare nuovi modelli organizzativi in grado di creare valore e innovazione per le aziende e per l’intera società.  

 

A cura di Federica Maiucci

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