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Nel mondo della moda e del fashion come e quanto è rappresentata la diversità?

Il caso Gucci: Ellie Goldstein… 

Negli ultimi mesi ha fatto molto parlare si sé la scelta di Gucci di utilizzare la giovane Ellie Goldstein, la prima modella con la sindrome di down ad aver posato per il marchio fiorentino,  come volto della campagna promozionale di un nuovo mascara. Tale scelta ha sollecitato reazioni entusiaste da parte del pubblico, generando dibattito e attenzione sul brand grazie ad un’operazione di marketing perfettamente riuscita. Scegliere una modella sui generis come Ellie ha permesso a Gucci di rafforzare l’intenzione positiva sottintesa nel messaggio della campagna pubblicitaria: il nostro mascara è progettato per ogni genere di persona, qualunque sia il suo aspetto, “per raccontare la propria storia di libertà”. 

 

… e Armine Harutyunyan

Reazioni decisamente opposte hanno invece coinvolto un’altra modella di Gucci, la giovane di origini armene Armine Harutyunyan. La particolare bellezza della modella risiede nei tratti caratteristici del suo luogo d’origine e, scegliendola, lo scopo di Gucci deve essere stato esattamente quello di inserire sulla passerella un elemento inconsueto per far discutere, suscitare dibattito e promuovere un altro genere di bellezza, al di fuori dai canoni più tradizionali. E dunque la casa di moda è riuscita a far parlare di sé attorno ad un volto inedito, il quale ha però generato, oltre ad un dibattito sui canoni di bellezza che è normale aspettarsi in un contesto come quello della moda, reazioni di odio, insulti e offese rivolte direttamente alla giovane Armine, la quale ha dovuto difendersi da veri e propri attacchi di body shaming anche a distanza di un anno dalla sua apparizione in passerella. Viene da chiedersi se coloro che non sono stati in grado di vederne la bellezza e la sensualità non dovrebbero tanto criticare la modella quanto invece portare maggiore rispetto e riflettere meglio sui propri canoni estetici.  

 

Verso la risignificazione del canone estetico

Citiamo questi due casi specifici come emblematici del ruolo sempre più rilevante assunto dalla diversità all’interno del mondo della moda. La costruzione di un certo tipo di rappresentazione inclusiva dei corpi attraverso campagne pubblicitarie, sfilate, shooting, è un trend che caratterizza da diversi anni questo settore. Se dapprima abbiamo visto come questo abbia scelto di aprirsi alla diversità per rispondere alle esigenze specifiche della stessa (si pensi ad esempio alle linee di abbigliamento realizzate per far fronte alle specifiche esigenze delle persone con disabilità fisiche, come quella lanciata da Tommy Hilfiger Tommy Adaptive o dalla casa di moda inglese Asos), sempre più diffusa è diventata la presenza di persone “fuori norma” sulle passerelle di moda, o come volto delle campagne pubblicitarie; questo ha permesso di muovere notevoli passi in avanti verso la risignificazione di un immaginario estremamente rigido quale quello del canone estetico rappresentato dall’universo della moda, vale a dire della modella perfetta perché caucasica, magra ed esteticamente in linea con dei canoni prestabiliti. 

 

Un’inclusione di “superficie”

Tuttavia, la rappresentazione delle “minoranze” rimane ancora un universo a sé stante rispetto a quello della moda mainstream: sebbene siano stati molteplici i tentativi di inclusione e rappresentazione della diversità, questa resta spesso un valore da mostrare solo in superficie. E’ infatti indubbia la capacità di attrazione e di creazione di dibattito suscitata dalla scelta di volti e corpi di modelle di colore, transgender, oversize, disabili o con caratteristiche fisiche non ordinarie: molteplici sono gli sforzi da parte di stilisti e case di moda per includere sulle proprie passerelle modelle “diverse”, sebbene venga da domandarsi quanto davvero questa “diversità” rappresentata ci parli anche di effettiva inclusione. Perché l’inclusione concreta della diversità presuppone un intervento molto più profondo di quello che si vede solo in apparenza. Scegliere come volto della nuova stagione una modella con sindrome di down o far sfilare una modella appartenente ad una minoranza etnica può certamente apparire come una scelta scostata dai canoni “classici” di bellezza, e dunque inclusiva di ciò che consideriamo diverso, magari brutto perché esteticamente lontano dall’idea di modella largamente diffusa, ma non interviene in alcun modo nelle cause strutturali che ancora oggi portano all’esclusione dal mondo produttivo e sociale delle persone portatrici di diversità, a partire dalla disabilità fino ad arrivare all’appartenenza etnica o di genere. 

 

Si può andare oltre la Brand Reputation?

Oltre ad una buona campagna di brand reputation, in che modo una grande azienda può strutturare una gestione della diversity più autentica, davvero inclusiva delle soggettività coinvolte? Rendere effettivamente protagonista la diversità in azienda significa limitarsi a mostrare un volto insolito, un corpo dissonante, o coinvolgere nei processi produttivi e creativi le persone non in base alla specifica diversità quanto invece alle proprie capacità e competenze? Proprio per un settore come quello della moda, dove la creatività, il desiderio, l’espressività fanno da motore al processo creativo, valorizzare la diversità non può limitarsi ad essere un’operazione di marketing fine a se stessa. Portare l’inclusività nel mondo della moda significa dare voce anche alle storie dei suoi protagonisti, raccontarne la condizione di minoranza, condividerla per poterne cercare spunti di lavoro comune, per creare una narrazione che non si fermi all’immagine ma sia in grado di scardinare stigma, discriminazioni e pregiudizi legati a quella stessa immagine. Innovare la propria struttura organizzativa attorno a questi assunti potrebbe senza dubbio portare alla realizzazione di una campagna di marketing davvero originale e ben riuscita, ma primariamente occorre agire un cambiamento organizzativo interno in grado di restituire all’azienda un’immagine di sé che corrisponda ad una reale inclusione delle differenze.  

 

Gucci Equilibrium, per la promozione della D&I nel mondo della moda

Provando a ricercare più a fondo, ci accorgiamo di come effettivamente esistano diversi tentativi in questa direzione: tornando alle modelle di Gucci, ad esempio, appare evidente come quella che appare solo come una strategia di marketing per attrarre l’attenzione dei clienti ed accrescere la propria buona reputazione all’esterno, sia in realtà supportata da un intervento di Diversity Management che mira non solo a rivoluzionare l’aspetto esteriore del brand, dalle campagne pubblicitarie alle sfilate in passerella, ma agisce anche su un profondo cambiamento organizzativo dell’azienda stessa. Attraverso il progetto Gucci Equilibrium, l’azienda si impegna a promuovere un cambiamento positivo per la comunità, riducendo il proprio impatto ambientale e sostenendo al contempo i diritti delle persone attraverso la promozione dell’inclusività e del rispetto affinché all’interno di Gucci tutti siano liberi di esprimere la diversità autentica del proprio essere. Parlare di inclusività significa dunque assicurare all’interno dell’azienda uno spazio di lavoro accogliente per tutti e tutte le dipendenti (attraverso formazioni, workshop e momenti di confronto), significa aumentare la presenza della diversità non solo tra i dipendenti ma anche nelle posizioni di management, raggiungere la parità di salario tra i generi a parità di mansione, creare opportunità lavorative per le persone disabili e uno spazio e un linguaggio accogliente per tutte le soggettività LGBT*QIA+.

 

La ricerca del Council of Fashion Designers of America

Altrettanto interessante è l’intervento sviluppato dalle società di abbigliamento statunitensi Council of Fashion Designers of America (CFDA) e PVH Corporation, che hanno realizzato un’indagine del ruolo dell’inclusione e della diversità all’interno del mondo della moda statunitense. Partendo dall’assunto per il quale inclusione e diversità sono legate inestricabilmente, CFDA e PVH hanno proposto un focus group di consulenza alle loro aziende partner al fine di guidare le stesse allo sviluppo di percorsi di Diversity Management attraverso la realizzazione di interventi organizzativi e la ricerca di best practices finalizzate alla costruzione di una cultura inclusiva e diversificata, legata specificatamente ai bisogni espressi da ciascuna azienda. Grazie ad un processo consulenziale e ad interventi formativi legati ai ruoli manageriali e ai gruppi di lavoratori, si è riusciti ad intervenire sulla cultura organizzativa al fine di migliorare l’inclusività all’interno del posto di lavoro, legandola alle specifiche esigenze della diversità tanto quanto agli obiettivi aziendali.

 

Qual è la vostra esperienza?

In un’ottica di diffusione e moltiplicazione di buone pratiche e prassi inclusive all’interno dei contesti organizzativi, riteniamo utile provare ad indagare le strategie di Diversity Management adottate dalle aziende, in questo settore come in altri, per mettere a confronto le difficoltà affrontate, le soluzioni adottate e i risultati raggiunti. Per questo motivo, vi invitiamo a confrontarvi con noi a partire dalle esperienze specifiche del vostro contesto organizzativo, o dalla vostra storia personale, al fine di poter elaborare insieme nuove linee di sviluppo strategico per le persone e le organizzazioni. Nel modulo sottostante potrete inviarci i vostri contributi, per un confronto diretto con DNA.

A cura di Federica Maiucci

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