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Il problema dell’inclusione nelle aziende

Si sente spesso parlare di integrazione e inclusione sociale, di rispetto dei diritti delle persone appartenenti alle cosiddette categorie svantaggiate in materia di welfare pubblico, accessibilità ai servizi, alla formazione e all’inclusione lavorativa. Rispetto al mondo del lavoro, è visibile lo sforzo di molte aziende, grandi e piccole, per sviluppare pratiche virtuose di inclusione e valorizzazione della diversità. In materia di parità di trattamento dei lavoratori esiste una normativa di riferimento (artt. 15 e 16 dello Statuto dei Lavoratori) e degli interventi legislativi specifici come il Codice delle Pari Opportunità, che ha ad oggetto misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso o che abbiano come conseguenza l’impedimento del riconoscimento, godimento ed esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile. Entro tale cornice normativa è possibile immaginare piani di sviluppo aziendale in ottica più inclusiva, utile non solo ad adeguarsi a delle leggi imposte. Eppure la realtà, in particolare in Italia, è ancora troppo spesso un’altra: sono ancora moltissime, per citare alcuni esempi, le persone che devono nascondere il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro, rischiando il licenziamento nel caso in cui scegliessero di fare coming out; tantissime sono le donne che devono fingere di non volere una famiglia, sotto il ricatto della perdita del posto nel caso di una gravidanza; o ancora, sono moltissime le persone che devono nascondere la propria malattia o la propria disabilità per il rischio di vedersi esclusi e stigmatizzati dai propri colleghi. 

 

In Italia

Il nostro paese vanta una triste tradizione di stereotipi e pregiudizi che plasmano negativamente il mondo del lavoro: basti pensare che l’Italia ha uno degli indici più alti in Europa di disoccupazione femminile, che il gender pay gap (la differenza a parità di mansione tra il salario di una donna e quello di un uomo) ha percentuali molto più alte rispetto agli altri paesi europei, che il part-time involontario occupa principalmente la popolazione femminile. Pregiudizi e discriminazioni salgono ad un livello ancora più alto se parliamo della popolazione LGBTQIA+: in questo caso, c’è una tendenza da parte delle aziende volta o ad escludere tali soggettività (come ad esempio le persone trans), o a categorizzarle ed assegnare loro ruoli specifici in base all’aspetto fisico o all’orientamento sessuale, imponendo una rappresentazione pregiudizievole sulle stesse: si pensi, ad esempio, al commesso dei grandi negozi di abbigliamento, che deve obbligatoriamente ostentare la propria omosessualità perché più si addice al suo ruolo professionale. O ancora, è molto forte il pregiudizio per cui le donne sono brave ad organizzare e non a comandare, e questo si traduce in un impiego massivo della popolazione femminile nei ruoli gestionali ed amministrativi, mentre le donne manager in Italia rappresentano ancora oggi una rarità. Così come è più facile relegare il dipendente disabile a funzioni operative, senza mostrare interesse nell’esplorazione delle sue competenze effettive e le possibili idee innovative che questo potrebbe portare. 

 

Sconfiggere i nostri stessi pregiudizi: la sfida dei Recruiter

Queste situazioni vengono a crearsi non solo perché viviamo in un contesto sociale estremamente complesso e frammentato, ma anche perché, tornando ad un piano più personale, possiamo affermare che nessuno di noi è scevro da bias e pregiudizi: in quanto persone, ciascuno di noi adotta un punto di vista della realtà soggettivo e personale, filtrando le informazioni in base a categorie, valori e preconcetti che abbiamo assorbito nel corso della vita e delle esperienze che ci hanno formato ad essere le persone che siamo. Questo bagaglio di informazioni interviene a creare inevitabilmente un filtro di lettura della realtà, oggettivamente relativo e personale. A dimostrazione di questo, prendiamo la figura del recruiter: il processo di selezione di cui tale figura è protagonista si articola in una serie di fasi interdipendenti e si attua grazie all’utilizzo di strumenti più o meno standardizzati, ma è pur sempre realizzato da una persona, la cui specifica visione della realtà andrà inevitabilmente ad influenzare il processo di selezione. Questo può avvenire sia in fase di screening dei curriculum, che non è libera da interpretazioni soggettive e dunque potenziali discriminazioni di alcuni rispetto ad altri, sia in fase di colloquio, durante il quale la soggettività del selezionatore acquista il peso del portato della propria sfera personale (fatta da una storia specifica, un contesto culturale, inclinazioni, emozioni, umori, pregiudizi e condizionamenti che ne derivano).

 

Formare al processo di Recruiting

Non sembra dunque possibile realizzare un processo di selezione che sia obiettivo nel giudizio in ogni sua fase, ma questo dato ci pone una sfida interessante: formare i propri recruiter con l’obiettivo di accrescerne la consapevolezza rispetto al proprio vissuto, e dunque lavorare sulla capacità di riconoscere i propri bias e pregiudizi e limitarne il peso in fase di selezione, potrebbe essere un elemento di positività e crescita per l’azienda stessa? Di fatto, il recruiter rappresenta il primo volto dell’azienda con cui i candidati vengono in contatto, è il primo intermediario tra l’azienda e le risorse (a prescindere che sia interno all’azienda o ne rappresenti una cliente) e questo rende il suo ruolo centrale e di fondamentale importanza. In primis perché svolge un lavoro di fine cucitura tra le esigenze dell’azienda e le competenze ricercate nelle risorse, ma anche perché per un’azienda il proprio recruiter ha la funzione primaria di stimolare l’azienda stessa ad adottare politiche di diversity. Lo vediamo portando ad esempio una situazione tipica di un colloquio di selezione: se il recruiter ha una buona consapevolezza dei propri pregiudizi e categorie interpretative, sarà in grado di confrontarsi con quegli stessi pregiudizi laddove durante un colloquio dovesse incontrare una persona con valori e pregiudizi diversi e, nonostante ed anzi proprio grazie al riconoscimento di tali divergenze, sarà più facilmente in grado di giudicare la risorsa in base alle competenze da essa possedute, senza lasciare che il proprio vissuto influenzi il processo valutativo.  Formare i recruiter alla consapevolezza dei propri pregiudizi significa investire su tali risorse affinché queste possano diventare esse stesse innovatori e portatori di diversità in azienda. In questa chiave il ruolo del selezionatore diventa fondamentale e promotore del cambiamento. 

 

Promuovere la diversità in fase di recruiting

Per tali motivi è importante, già in fase di recruiting, che i professionisti delle risorse umane promuovano la diversità in ogni ambito, garantiscano imparzialità e trasparenza e agiscano la propria scelta unicamente sulla base del merito e del valore espresso dal candidato. La sfida si gioca nel superare Bias e Pregiudizi del processo di Selezione perché un ambiente di lavoro diversificato si contraddistingue per efficienza e miglioramento delle prestazioni, per un’elevata capacità di creatività e innovazione e, soprattutto, per l’incremento dei profitti aziendali. Come riportato da Forbes, “Le aziende con una gestione manageriale culturalmente ed etnicamente diversificata hanno il 33% di probabilità in più di ottenere profitti superiori alla media. Rispetto al consiglio di amministrazione, le società culturalmente ed etnicamente diverse hanno il 43% di probabilità in più di ottenere profitti superiori alla media. Questo mostra una correlazione significativa tra diversità e prestazioni”.

 

A cura di Federica Maiucci e Chiara Saraco

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